Starbucks paga l’università ai dipendenti
Benefit
Una conferma della politica di welfare inaugurata dall’ex presidente Howard Schultz, 65 anni, che dopo aver fondato e gestito la più grande catena di caffetterie al mondo – 28mila negozi in 75 Paesi – ha lasciato l’azienda per correre (da indipendente) alle elezioni del 2020 per la presidenza degli Stati Uniti. «Siamo un’azienda basata sulle persone e sul rapporto con le persone, dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per attrarle e trattenerle», aveva dichiarato Schultz in un’intervista al Corriere. Elencando i benefit previsti per i dipendenti: assicurazione sanitaria, partecipazioni azionarie e, da ultimo, anche la retta del college gratis. Il programma è stato testato con successo negli Usa dove, dal 2014, ben 2.400 dei 18mila dipendenti (su un totale di 135mila) che hanno fatto domanda, si sono laureati.
Welfare aziendale
Un approccio al welfare aziendale che, per quanto in apparenza costoso, può ripagare: «Aggiungono valore all’esperienza e al rapporto con il cliente», sosteneva Schultz, secondo cui questi investimenti sono «moltiplicatori di successo». Lui, originario di una famiglia povera di New York, ha sempre messo molta enfasi sulla solidarietà come obiettivo di Starbucks. E oggi i dipendenti americani (che vengono chiamati «partners») godono di un sistema di welfare che non ha paragoni con altre aziende. Va detto, però, che in 35 anni di crescita, il colosso ha sempre ostacolato l’ingresso del sindacato fra i suoi 300mila lavoratori.
Le persone prima
«Starbucks è un’azienda che ha sempre messo le persone al primo posto», ha confermato Martin Brok, presidente europeo della società. Che spiega che lo schema servirà anche ad attrarre e trattenere personale, nel dopo Brexit. L’incognita della forza lavoro agita anche altre catene della ristorazione: Pret a Manger, per esempio, che tra i suoi dipendenti conta solo un cittadino britannico ogni 50.