L’insostenibile leggerezza del welfare aziendale
di Flaviano Zandonai, Paolo Venturi*
Il discorso potrebbe sembrare chiuso. Il bilancio tra costi e benefici del welfare aziendale non è così in deficit come sostenuto da alcuni autorevoli osservatori, vedi il presidente del Cnel TIziano Treu, e come riportato da Repubblica. I dati proposti dai ricercatori di Secondo Welfare, unitamente a quelli già ricordati da Emmanuele Massagli – presidente di AIWA, l’associazione di rappresentanza dei provider di welfare aziendale – ridimensionano infatti il disequilibrio tra costi in termini di sgravi fiscali e vantaggi per i beneficiari di queste misure, evidenziando le esternalità positive (spillover) connesse a queste nuove forme di welfare contrattuale.
Ma la partita non è finita proprio nella misura in cui lo stesso Massagli nella sua risposta contribuisce a delineare l’insieme degli effetti generati dal welfare aziendale. Una molteplicità di fattori diretti e indiretti che portano a scomodare una delle buzzword più citate in questa fase nel campo delle politiche sociali (e non solo): “impatto”. Se il termine, come immaginiamo, non è evocato a caso, esso rappresenta un nuovo stadio evolutivo nella valutazione del welfare aziendale. Dopo aver ricostruito, almeno a livello di architettura, l’”algoritmo” dei costi e dei benefici ora appare necessario considerare fino a che punto il welfare aziendale si configura come politica d’impatto, cioè di natura trasformativa.
Già, ma trasformativa di cosa? Quali possono essere, in altri termini, le dimensioni sociali che questa declinazione del welfare si propone di innovare positivamente e in via stabile? Potrebbe essere facile rispondere che si tratta dei modelli organizzativi, di servizio e di policy della protezione sociale. Ma non è tutto qui. Anzi forse non si tratta neanche della dimensione principale. La sfida d’impatto del welfare aziendale (quella che gli esperti chiamerebbero “societal challenge”) riguarda infatti due altri aspetti, legati alla dimensione economica e di innovazione tecnologica. Da una parte, infatti, si dovrebbe valutare la capacità trasformativa del welfare aziendale all’interno della “grande trasformazione” che sta investendo in maniera sempre più sistematica l’architettura delle catene di produzione del valore (value chain) delle imprese (in particolare quelle di capitali), sempre più orientate a incorporare elementi di valore ambientale e sociale. D’altra parte, lo stesso welfare aziendale dovrebbe essere parte integrante della quarta rivoluzione industriale che ridisegna alla radice processi e strutture produttive attraverso un modello di interazione più profondo e pervasivo tra componente umana e componente tecnologica, con quest’ultima che è sempre meno ausilio e sempre più intelligenza.
Proprio su questi due fronti così rilevanti i pochi dati fin qui a disposizione, come quelli del monitoraggio welfare index PMI, sembrano indicare che la strada verso un impatto sociale positivo e duraturo è ancora lunga. Il welfare aziendale, in sintesi, oggi sembra fare il solletico alle dinamiche di trasformazione profonda sopra citate. È quindi necessario individuare le cause di questo impatto ancora superficiale al fine di incrementarne la capacità di agire come strumento di gestione del cambiamento e non solo di ottimizzatore del “business as usual”. L’errore, in questo caso, è di guardare troppo alla natura delle prestazioni e meno al modello di servizio attraverso il quale esse vengono progettate ed erogate. In altri termini più che a distinguere, anche attraverso benefici e sgravi differenziali, le prestazioni del cosiddetto “welfare nobile” (sanità, educazione, assistenza) da quelle di facilitazione (turismo, ricreazione, sostegno economico), la questione riguarda il design delle piattaforme di intermediazione.
Oggi le molte piattaforme di welfare aziendale presenti sul mercato sono troppo simili a marketplacedi servizio e ancora lontane dall’esplicitare la loro dimensione “di missione”. Manca, infatti, la capacità di reinterpretare la funzione di intermediazione sociale, di agire in senso smart le variabili del “cooperare” e del “condividere” in sede di definizione dell’offerta e dell’assetto di governo. Spingendosi così oltre i confini della contrattazione aziendale e aprendosi con decisione al territorio. La scarsa capacità di operare come infrastrutture sociali che orchestrano reti orientate alla produzione di una autentica “sharing economy” rischia di rendere il loro successo effimero, relegandole ai margini delle strategie aziendali e delle politiche locali e svolgendo una funzione di “optional” della gestione risorse umane.
Per questa ragione più che dedicarsi alle compatibilità interne tra le prestazioni che definiscono il paniere del welfare aziendale bisognerebbe concentrare l’attenzione, anche in termini valutativi, sulle ben conosciute strategie di “annidamento”, che però in questo caso non riguardano solo l’incastro tra primo e il secondo welfare (per approfondire il concetto di nesting tra primo e secondo welfare si rimanda al capitolo di Franca Maino del Secondo Rapporto sul secondo welfare, pp. 33-34). Bisognerebbe infatti comprendere meglio come secondo welfare, nella sua “variabile aziendale”, si annidi dentro le strategie di innovazione 4.0 e dentro le politiche di responsabilità sociale che virano verso modelli di economia coesiva. Così facendo si alzerebbe certo l’asticella della complessità e si modificherebbe di conseguenza la prospettiva valutativa. Ma un welfare aziendale impact orientedpuò essere un antidoto a una deriva da fringe benefit che rischia di essere sempre più insostenibile sia a livello di spesa (fino a quando dureranno gli incentivi pubblici?) e ancor più rispetto alla possibilità di impattare su un’economia che senza capacità di assorbire in modo consapevole l’innovazione socio-tecnologica di questa epoca da “cambio di paradigma” rischia seriamente di continuare a viaggiare a velocità “zero virgola”.
*Il seguente articolo è stato pubblicato su Secondowelfare.it, il, 5 settembre 2019