Welfare aziendale, vale più del cuneo fiscale
di Emmanuele Massagli*
Il Governo sta facendo molta fatica a trovare le risorse utili a esaudire la promessa di taglio del cuneo fiscale. Il rischio effettivo è quello di presentare delle norme insoddisfacenti tanto per i sindacati (che non nascondono i dubbi su alcuni contenuti del DEF), quanto per le imprese.
Incrociando i dati recentemente forniti da fonti tra loro molto diverse (Fisco, Istat e Inps) è possibile tracciare un ritratto del mercato del lavoro a tinte decisamente fosche.
Le statistiche lavoristiche ci dicono che alla timidissima crescita della quantità del lavoro non corrisponde un incremento della qualità. Al contrario: le ore di lavoro sono poche, le posizioni aperte mal pagate, i giovani ancora esclusi dal mercato. Lo confermano i numeri forniti dal Ministero dell’Economia e rielaborati dal Centro Studi Itinerari Previdenziali: il 40% dei dipendenti dichiara redditi inferiori a 15mila euro (pagando, di conseguenza, solo il 3,5% delle imposte raccolte dallo Stato); un altro 49% dei dipendenti non guadagna più di 35.000 euro.
In uno scenario di questo genere, come poter essere sicuri che un taglio a margine del cuneo fiscale (un solo punto di cuneo costa circa 3,5 miliardi di euro e gli spazi di bilancio sono pochi) possa apportare benefici effettivamente percepibili, in primis dai dipendenti peggio pagati e in secondo luogo, indirettamente, dall’intera collettività mediante maggiori consumi e incremento del gettito?
Il proposito del governo pare giustificato da preoccupazioni di natura politica, più che di convenienza pratica. Perché possano moltiplicarsi le ore di lavoro occorre crescita economica, ma questa, per essere attivata, ha bisogno di interventi strutturali che il governo non può permettersi ora.
Per uscire da questa vera e propria trappola è necessario pensare fuori dagli schemi (thinking outside the box), competenza trasversale sempre più centrale nel mondo del lavoro e sempre più necessaria anche in politica. Una strada può essere quella di ribaltare le solite ricette e mirare non tanto alla qualità del posto di lavoro, bensì alla qualità del rapporto di lavoro. Questa non dipende in prima battuta dal livello salariale, bensì dalla ‘abitabilità’ umana e tecnologica del proprio ambiente di lavoro.
Lo Stato poco può fare per imporre la simpatia e l’educazione negli uffici e nelle linee di produzione; ha però a sua disposizione una leva potente per abilitare il contratto di lavoro ad occuparsi anche dei bisogni sociali di ogni persona. Si tratta del welfare aziendale, ossia somme e servizi che il datore di lavoro riconosce ai propri dipendenti per finalità di natura sociale e per questo esclusi in tutto o in parte da tassazione e contribuzione.
Si tratta, quindi, di trasferimenti che non rientrano nel cuneo fiscale. Con la legge di stabilità 2016 il Legislatore ha iniziato un processo di ammodernamento di questo istituto, il cui esito è stato una crescita annua dei piani di welfare aziendale superiore al 70%, a tutto vantaggio dei lavoratori, delle imprese e dello stesso Stato, che ha visto incrementare le entrate fiscali ed emergere quote importanti di lavoro nero.
Basterebbe un investimento dieci volte inferiore a quello ipotizzato dal governo per il taglio al cuneo fiscale per fare un ulteriore passo in avanti normativo, garantendo ai dipendenti privati e pubblici migliori servizi e maggiore benessere, con effetti decisamente più incidenti di un modesto taglio delle tasse.
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*Il seguente articolo è stato pubblicato su Quotidiano.net, il 7 ottobre 2019