«L’Italia invecchia, servono bimbi e talento»
Il presidente delle società di welfare: «Le imprese devono favorire la natalità. E sui servizi si risparmiano tasse e contributi»
di Claudia Marin*
Si moltiplicano i servizi di welfare aziendale per sostenere la natalità e la conciliazione tra lavoro e famiglia. Perché?
«Per molteplici ragioni – spiega Emmanuele Massagli (nella foto), Presidente di Aiwa, l’ Associazione delle società di welfare – che riguardano innanzitutto la dimensione economica più generale: nessuna impresa può progettare crescita in una società che invecchia, nella quale diminuisce il numero di consumatori e il numero di giovani motivati, creativi, innovativi.
Nell’ epoca dell’ economia globalizzata e tecnologizzata la competitività delle imprese è garantita soprattutto dalla qualità delle persone che vi lavorano: se il bacino dei nuovi talenti è ridotto e il ricambio difficile, l’ impresa finirà con il perdere terreno rispetto alle aziende stabilite in contesti umani fecondi e vivaci.
La denatalità non è soltanto un problema etico o sociologico, è anche un nodo di primaria importanza economica».
Questo sul piano del sistema economico nel suo complesso. Ma le singole aziende, nel loro specifico contesto, quali ritorni concreti possono avere dal sostegno alla natalità?
«L’ impresa non ha interesse a porre alle persone la scelta tra lavoro e famiglia; anzi, persone più contente anche perché realizzate nella loro vita privata sono più produttive. Il binomio si pone quando accanto alla famiglia non ci sono forme di assistenza fornite da parenti (cosiddetto welfare familiare) o servizi pubblici all’ altezza. Allora per le coppie la scelta di fare un figlio può assumere anche la forma di un calcolo ‘economico’, il che è socialmente inaccettabile».
Da qui l’ intervento di supplenza delle imprese con la diffusione di misure per la famiglia, tanto più in un Paese a bassissima natalità.
«Sì. E ci sono motivazioni giuridiche, sociali ed economiche. Va osservato che il welfare aziendale permette una modalità di conciliazione tra vita professionale e vita privata molto più moderna di quella promossa dal nostro tradizionale apparato legislativo, pure molto avanzato su questa materia. Se però la legge si è sempre mossa garantendo in primis alla donna la maggior quota di reddito possibile nel periodo di lontananza dal lavoro, senza trovare soluzioni per conciliare (lo stesso termine è voluto) famiglia e lavoro, con il welfare aziendale l’ assenza dall’ azienda non è più una soluzione obbligata per mancanza di alternative, perché è la stessa impresa a rimborsare le spese sostenute per la cura dei figli anche quando i genitori sono a lavoro. E così può addirittura diventare un piccolo contributo concreto in grado di incoraggiare un ritorno alla natalità».
Ci sono anche vantaggi fiscali per le imprese?
«Si tratta di beni e servizi che, pur essendo scambiati all’ interno del rapporto di lavoro (l’ impresa li cede al dipendente), non sono considerati reddito da lavoro e quindi non comportano tassazione e contribuzione perché rispondono a identificati bisogni sociali del lavoratore».
Ma i lavoratori come accolgono queste innovazioni? Quali sono i servizi preferiti?
«Quando è data loro possibilità di scelta, i lavoratori scelgono in maggioranza i servizi di assistenza sanitaria integrativa.
Piacciono molto, però, anche le misure per la famiglia, in particolare per i figli: borse di studio, pagamento delle rette di asili e scuola, babysitting, corsi sportivi nei periodi festivi. In terza battuta ci sono gli abbonamenti ai mezzi pubblici e a seguire le soluzioni ricreative e la previdenza complementare. È evidente che la gerarchia delle scelte è anche correlata agli scompensi dell’ offerta pubblica di welfare (e questo determina variazioni da territorio a territorio)».
*Il seguente articolo è stato pubblicato su La Nazione, il 4 febbraio 2020