Welfare aziendale dopo Covid-19. Oltre i flexible benefit

da Apr 14, 2020Studi e approfondimenti

Il welfare aziendale dopo il Covid-19: siamo alla seconda “puntata” della serie di appuntamenti proposti da Luca Pesenti, docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano e da Giovanni Scansani, co-fondatore di Valore Welfare (gruppo Cirfood), advisor specializzato nella materia.

Cosa sta accadendo sul fronte del Welfare Aziendale (WA) in questo periodo? Si tratta di una domanda rilevante sia con riferimento alla posizione delle imprese nelle quali il WA è presente da tempo (servirà anche ad evidenziare i maggiori rischi che corre il WA nei contesti dove, invece, è solo più recente la sua adozione), sia con riferimento agli operatori gestionali dei relativi servizi di supporto: i cosiddetti Provider per i quali non solo lo scenario, ma forse il loro stesso ruolo, sembra destinato, almeno in parte, a mutare.

Affronteremo quest’ultimo tema in un successivo articolo della serie che stiamo proponendo, mentre qui partiamo dalla posizione delle aziende ed in primis dalla loro capacità di “reazione” sul fronte del welfare.

I media, alla ricerca di “buone notizie” per alleggerire il quadro di preoccupazione con cui stiamo convivendo da oltre un mese e mezzo, sono andati alla caccia di esperienze virtuose. Ne indichiamo qualcuna a mo’ d’esempio della rapida reazione aziendale espressasi per contrastare l’emergenza sul fronte “sociale”: il Pastificio Rana (2 milioni di euro di aumenti salariali complessivi per il periodo dell’emergenza, un sostegno specifico per i servizi di baby-sitter e una polizza assicurativa specifica che copre il rischio di contagio da Covid-19), la Luxottica, la Ferrero (rispettivamente con incrementi in WA e salariali per gli addetti che hanno dovuto restare al lavoro nel periodo marzo/aprile) e la Bhoeringer Ingelheim (attivazione di uno specifico servizio di counseling per i dipendenti in difficoltà tra restrizioni alla libertà di movimento, lavoro domiciliare e coordinamento dei ritmi familiari, oltre ad una polizza assicurativa anche in tal caso a copertura del rischio di contagio da Covid-19).

Interessante anche il caso della meno nota AMG Energia di Palermo che, con un accordo innovativo, ha salvato 260 posti di lavoro grazie all’attivazione di una rete di solidarietà tra dipendenti (dirigenti inclusi) basata sulla cessione di ore di permesso da parte di chi è al lavoro in modalità agile e da parte degli operatori attivi nei servizi essenziali nei confronti dei dipendenti che non possono essere riconvertiti a svolgere altre attività.

Con finalità più direttamente economiche si sta muovendo, invece, NetCom Group di Napoli che riguardo ai lavoratori posti in cassa integrazione intende colmare il gap retributivo rispetto al trattamento ordinario riconoscendo volontariamente on top un importo da corrispondere esclusivamente in servizi di WA che non costituendo reddito imponibile avrebbe il pregio di compensare in maniera netta quella differenza. Ne deriverebbe, aggiungiamo noi, una nuova “categoria omogenea” costituita, appunto, dai lavoratori cui siano stati riconosciuti gli specifici ammortizzatori sociali previsti dalla disciplina in vigore potendosi, in tal guisa, profilare un primo originalissimo caso di WA del quale i destinatari non siano i lavoratori in servizio, ma quelli posti temporaneamente fuori dal ciclo produttivo (il caso, partenopeo, in realtà, è doppiamente interessante perché fa letteralmente a pugni con quei casi di sospensione delle misure di WA, come accaduto nei numerosi casi nei quali è stata interrotta l’erogazione dei buoni pasto ai dipendenti posti in lavoro da remoto coatto, impropriamente definito in questo periodo come smart working).

Quelle citate, pur essendo iniziative non strutturali, rappresentano azioni assai meritorie perché destinate a lenire le dolorose ferite conseguenti alla crisi che stiamo vivendo e che, in molti casi, hanno rafforzato il welfare in quanto tale (ossia non solo quello d’impresa, ma anche quello pubblico, ora davvero in grandissimo affanno).

È tuttavia chiaro che le direzioni HR cominceranno ad affrontare il capitolo welfare soltanto dopo aver messo mano a più pressanti necessità: dalla sanificazione dei luoghi di lavoro associata alla ridefinizione delle norme di sicurezza per il personale in servizio (nei settori considerati essenziali) alla riorganizzazione degli uffici attraverso il ricorso su vasta scala a modalità di lavoro da remoto, non dimenticando naturalmente anche i processi di gestione dello stop resosi necessario in tutti i settori invece non essenziali, con la necessità di predisporre interventi per incrementare i congedi, incentivare l’utilizzo di ferie arretrate, preparare i contesti aziendali all’impatto della cassa integrazione. Per tutte le imprese, poi, ci sarà da gestire la “Fase 2”, quando questa arriverà ed anch’essa verosimilmente terrà in secondo piano il WA, almeno all’inizio.

Solo dopo tutto ciò è immaginabile che le imprese possano affrontare con la giusta attenzione il tema dei flexible benefit. Si scoprirà, ad esempio, che molti servizi previsti e utilizzabili dai lavoratori in tempi normali, risulteranno inutilizzati o inutilizzabili e a rischio di non utilizzo anche in futuro.

Palestre, campus estivi, servizi legati allo svago e magari anche il “maggiordomo aziendale”, sono solo alcuni degli esempi possibili di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato (o non sarà). Con la conseguenza, molto probabile, che una parte del budget (soprattutto quello on top) destinato al WA possa rimanere inutilizzato per un certo (e neppure breve) periodo.

Il tutto senza nasconderci il rischio di possibili riduzioni del valore del “Conto Welfare” individuale all’esito della prossima tornata della contrattazione aziendale che dopo il “lockdown” dovrà, in molti casi, fare i conti con la caduta verticale di fatturati e profitti e con i conseguenti obiettivi di saving e di recupero della marginalità che potrebbero indurre imprenditori e board aziendali a possibili contrazioni del quantum destinabile al budget di WA. Per non parlare (per ora) della sorte che toccherà, più avanti, ai Premi di Risultato (anche questo sarà un tema che verrà affrontato per esteso in un prossimo articolo della serie che stiamo proponendo).

Torniamo alle reazioni aziendali di fronte all’emergenza.

I casi esemplari delle imprese che abbiamo citato in precedenza ci dicono una cosa importante: al di là del momento contingente, essi evidenziano un sostrato culturale nel quale la propensione a creare ambienti di lavoro ove l’azienda è vista come punto di riferimento si associa al ruolo dell’impresa intesa come soggetto in grado di accrescere il senso di appartenenza e di farsi “luogo” nel quale aggregare, responsabilmente, le esigenze della continuità di business con quelle delle persone che la rendono possibile, anche (e si direbbe soprattutto) in situazioni emergenziali come l’attuale.

Alle aziende citate, per alcune delle quali le pratiche di WA hanno peraltro anche una lunga tradizione, si stanno aggiungendo (e si aggiungeranno) centinaia di altri casi che non hanno la possibilità di finire agli onori della cronaca, né sono aziende associabili ad un brand che da sé faccia notizia.

Tuttavia questi casi più nascosti esprimono, nel loro insieme, quella capacità di tenuta dei legami (interni ed esterni alle imprese) che è tipica del genus (e forse anche del genio) italiano che sempre si manifesta nelle occasioni più critiche.

Queste imprese, infatti, hanno mantenuto tesa la corda che le lega alle persone che vi lavorano ed ai territori in cui operano e sarà bene ricordare che “corda”, in latino, è anche “fides”, da cui il primo requisito per uscire vincenti da qualsivoglia crisi: la fiducia.

Proprio questo fragile, eppure essenziale, “capitale sociale”, già indebolito dalla lunga crisi finanziaria dello scorso decennio, rappresenta oggi l’arma principale con cui molte imprese stanno provando a tenere in piedi le loro attività e a dare, più in generale, un contributo essenziale al bene comune.

Sarà ancora una volta l’attenzione al benessere organizzativo (a cominciare dalla sicurezza sanitaria che dovrà essere ancor più vigilata nei luoghi di lavoro) a fare la differenza per costruire un nuovo “patto” capace di andare oltre il semplice scambio prestazione/salario.

Lavoro e salute, cioè, saranno ancor più strettamente tra loro connessi in quanto, entrambi, hanno la stessa natura di fondo: esprimono – prima ancora che dei diritti fondamentali – dei bisogni insopprimibili delle persone, senza la cui piena e contemporanea sussitenza né l’una, né l’altro, possono dirsi soddisfatti.

Nella direzione della reazione con finalità “sociale” sono andate anche quelle aziende e quegli imprenditori (grandi e piccoli) che si sono prodigati in termini economici (talvolta con donazioni milionarie) per aiutare la macchina del welfare pubblico ed in particolare quella sanitaria entrata presto in emergenza nel pieno dell’emergenza.

Sono state le PMI, per prime, ad aver deciso di riconvertire le loro linee produttive per alleviare lo sforzo destinato a sopperire a carenze incredibili per un Paese occidentale avanzato, come dovrebbe essere il nostro (mancanza di mascherine, camici e strumenti di cura: è così già è entrato nella storia di questo dramma collettivo l’adattamento, ad opera di una piccola impresa di ingegneria, della maschera da snorkeling venduta da Decathlon e convertita in respiratore per la terapia intensiva).

Queste e tante altre sono le reazioni che hanno avuto (e avranno) un impatto positivo non solo in questa fase di emergenza del welfare più ampiamente inteso, ma anche rispetto ai rischi terribili che stanno correndo molti lavori che l’emergenza, paradossalmente, ha in quei casi, invece salvaguardato proprio grazie alla riconversione produttiva (l’ultima di cui si ha notizia è quella di una linea della Ramazzotti passata dalla produzione degli amari a quella dei disinfettanti per le mani).

E siccome quella al Covid-19 è la “nostra” guerra, intesa come quella che sta vivendo chi non ha attraversato quella del 1940-1945, questa della riconversione è un’altra analogia interessante, tra le tante che si fanno, con quanto accadde durante la Seconda Guerra Mondiale, con il passaggio dalla produzione ordinaria a quella di tipo bellico (allora erano armamenti per offendere, oggi si tratta di armamenti per difendere e per difendersi: mascherine, camici e disinfettanti).

E come allora avvenne che la ripresa si caratterizzò per la conservazione degli istituti di benessere collettivo che, sino a prima dell’emergenza del conflitto mondiale, la storia della fabbrica e dell’impresa in Italia aveva saputo esprimere, così crediamo che anche la prossima ripresa non potrà tradire il senso (e dunque la direzione) verso la quale le strategie e le iniziative di people mangement s’erano ormai da tempo incamminate. Ne parleremo nel prossimo articolo, affrontando il tema del futuro del WA e di come lo scenario possa perfino rappresentare l’occasione non già per un suo indebolimento, bensì per un suo definitivo riconoscimento comune.

Luca Pesenti

docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano

 

Giovanni Scansani

co-fondatore di Valore Welfare (gruppo Cirfood), advisor di welfare aziendale

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Wewelfare.it, il 14 marzo 2020

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