Un patto che nelle aziende va oltre il contratto
L’azienda come «comunità di destino». Bum! verrebbe da aggiungere. Non da oggi, ma soprattutto di questi tempi, le suggestioni e le analisi in chiave di nuova sociologia stanno prendendo piede. Ma del resto questo tocca agli studiosi: dare forma e nome a cose nuove. E i tempi paiono propizi a nuovi battesimi o, forse, a rilucidare vecchie riflessioni e rimettere in circolo idee e atteggiamenti che già qualche nonno aveva.
Mi riferisco, senza darne troppa enfasi, al rapporto spesso molto stretto che in molte aziende inevitabilmente si stringeva fra principale e dipendenti; qualcosa che andava oltre quel che, forse sbrigativamente, molti anni fa (fine ‘800 addirittura o primi ‘900) si definiva “paternalismo” ma che ha significato spesso un welfare aziendale a dir poco avanzato: le case ai dipendenti, le scuole o le vacanze per i figli dei dipendenti, gli spacci interni (in forma cooperativa, qualcuno esiste ancora). Archeologia industriale.
Oggi la si vorrebbe recuperare dentro questa cornice “virtuosa” che vorrebbe trasformare il posto di lavoro – l’azienda in una comunità, una comunità di destino, appunto, che presuppone qualcosa di più di un contratto per trasformarsi in patto; qualcosa che va oltre lo stipendio e che prevede più partecipazione delle persone, più coinvolgimento, più rispetto, più attenzione alla salute di chi lavora dentro e vive fuori.
L’idea di una comunità che fa fatturato ma non solo, l’idea di un’ azienda, per dirla in una parola, più buona. Altro bum! Idea magnifica, forse velleitaria, ma – fossi un’ impresa – ci rifletterei; dipenderebbe da quel che vorrei diventare. Un sondaggio su 3 mila studenti universitari dice che i soldi non sono la prima cosa (ma la terza) che guardano al momento del cercare un lavoro. La prima virtù richiesta è la qualità dell’azienda, il senso che si dà nel mondo. Riflettiamoci.
*Il seguente articolo è stato pubblicato su Giornale di Brescia, il 28 maggio 2020