Salario minimo e welfare aziendale: considerazioni e implicazioni
alla luce della direttiva europea
di Emmanuele Massagli*
Nei giorni scorsi il Parlamento Europeo, a seguito di un lungo processo negoziale, si è impegnato a recepire la Direttiva sui salari minimi presentata dalla Commissione Europea il 20 ottobre 2020 per promuovere livelli adeguati delle retribuzioni dei lavoratori dell’Unione europea al fine di ridurre il lavoro povero (attenzione! A differenza di quanto si legge sui molti media, non si tratta di un regolamento finalizzato alla crescita generalizzata dei salari, ma alla difesa dei c.d. working poor!).
Una direttiva che non comporta alcuna correzione legislativa nei molti Paesi comunitari che già ora dispongono per legge o per contrattazione collettiva di riferimenti salariali superiori al limite del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano individuati dalla stessa Direttiva come confine del lavoro povero (7,66 euro/ora è il valore soglia di “working poverty” indicato da EUROSTAT nel 2018). Hanno ragione coloro che segnalano come in Italia non esista alcuna legge che obblighi trattamenti salariali minimi, quale esiste in 21 dei 27 Paesi della Unione (con valori però assai diversi). Gli stessi non ricordano però che nel nostro Paese il tasso di copertura della
contrattazione collettiva è superiore al 90% (il 97% se analizziamo i dati INPS e CNEL). L’informazione è necessaria per due motivi: innanzitutto perché chiarisce che anche in Italia vi sono dei paletti alla distribuzione verso il basso dei redditi e questi sono i minimi tabellari fissati ogni tre anni dalle associazioni di imprese e dai sindacati dei lavoratori, in contratti collettivi che sono molto di più che un mero tariffario; in secondo luogo perché è la stessa direttiva a chiarire che negli Stati ove i contratti collettivi regolino almeno l’80% dei rapporti di lavoro non solo non è obbligato alcun intervento legislativo, ma anzi è possibile che siano minori le diseguaglianze salariali.
Ciononostante, il fronte di coloro che richiedono un intervento legislativo è crescente e piuttosto rumoroso, galvanizzato dalla promessa di miracolosa sparizione del lavoro povero allorquando fosse approvata una nuova legge. Questa potrebbe optare per due diverse soluzioni: la prima è la fissazione di una cifra oraria non derogabile; la seconda è il rimando diretto alle soglie della contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa.
Entrambe le strade sono ostacolate da nodi tecnici che ancora non hanno trovato risposta.
Tra questi, non pochi riguardano l’importo da prendere come riferimento: lordo o netto? Sono da considerarsi anche le mensilità aggiuntive, il TFR, le indennità? E il welfare?
Interessante in questo senso è quanto sostenuto dalla CISL nella mozione finale del XIX° congresso nazionale che si è appena concluso: ribadendo il NO a qualsiasi intervento di legge sulla rappresentanza, il sindacato ha proposto di prendere come riferimento il trattamento economico complessivo (TEC) dei contratti maggiormente applicati in ogni settore. Il rimando è quindi al TEC e non al TEM (trattamento economico minimo, ossia la soglia tabellare). Specificazione importante per chi si occupa di welfare, perché questo, in tutte le sue forme, è compreso nel trattamento complessivo, ma non in quello minimo.
Garantire un minimo legale che non comprenda le componenti economiche aggiuntive e il welfare definito dal contratto nazionale sarebbe un grave errore da parte del legislatore e un passo indietro per i lavoratori.
Il seguente articolo è stato pubblicato su Welfare Update – La Newsletter dei soci di AIWA, n. 1/2022