Welfare aziendale: le nuove richieste. Aiuti per le badanti, meno per asili

da Gen 8, 2018Dicono di noi, Rassegna Stampa

di Rita Querzè*

Con un milione e mezzo di lavoratori coinvolti in automatico solo tramite i contratti di categoria, il 2018 promette di essere l’anno della svolta: il welfare aziendale da eccezione sta diventando norma. Non a caso gli operatori che forniscono piattaforme di welfare alle aziende sono passati dalla decina di tre anni fa alla novantina di oggi. Si è creato un mercato. Che registra nuove tendenze.

Chi si aspettava lavoratori interessati soprattutto  a voucher per nidi e baby sitter deve riaggiustare il tiro: servono invece badanti (in regola) e servizi per la non autosuficcienza.

Di questo hanno bisogno i cinquantenni che, complice la legge Fornero e il blocco delle assunzioni, sono spesso la classe di età più rappresentata nelle aziende. Lo dice l’AIWA, l’Associazione Italiana Welfare Aziendale che rappresenta oltre l’80% degli operatori. E lo confermano le singole società del settore. Anche perché i gigli si può scegliere di non averli. Ma tutti prima o poi devono farsi carico di un genitore.

«I servizi di cura per gli anziani sono in testa nei questionari che proponiamo ai dipendenti prima di mettere a punto un pacchetto di welfare – conferma tra gli altri Anna Zattoni, fondatrice tre anni fa di Jointly insieme con Francesca Rizzi, oggi una quarantina le aziende servite -. La domanda è tale che è persino difficile trovare fornitori da accreditare in numero sufficiente. La strada più corretta è quella delle cooperative sociali. Spesso, poi, non basta la semplice badante. Aziende e dipendenti chiedono servizi più complessi, come il cosiddetto “trasporto sociale” per chi ha bisogno di spostarsi per ricevere cure giornaliere».

Una badante a domicilio per dieci ore può valere intorno ai 180 euro. Ci vuol poco, insomma, a spendere i 150 euro messi a disposizione quest’anno dal contratto dei metalmeccanici. O i 100 degli orafi-argentieri. Oppure i 120 degli addetti delle telecomunicazioni. Certo, poi ci sono gli accordi a livello aziendale. Dal canto suo il sindacato teme che, per qualche azienda, la tentazione sia quella di sostituire voci della retribuzione con welfare per abbassare il costo del lavoro. Inoltre Cgil, Cisl e Uil si chiedono se sia giusto agevolare allo stesso modo l’abbonamento alla palestra e il voucher per la badante. 

Domande che si fa anche il mondo dei fornitori di servizi e piattaforme. «È importante che il welfare abbia una finalità sociale, lo abbiamo scritto anche nel nostro statuto”, è la risposta di Emmanuele Massagli, presidente di AIWA. «Il vantaggio fiscale non può che essere giustificato dalla finalità sociale stessa. Altrimenti ci si espone al rischio che prima o poi le agevolazioni fiscali e contributive vengano tolte». 

Per la gestione del welfare dei dipendenti le imprese devono mobilitare una somma pari al 2-7% di quanto erogato. La variabilità dipende in primis da cosa si garantisce: chi se la cava con un buono per il supermercato ha evidentemente costi ridotti. Da quest’anno la novità è che il welfare potrà finanziare anche le spese per il trasporto pubblico.

Alle piccole imprese danno una mano le associazioni di rappresentanza. Da Confcommercio a Confcooperative, Confartigianato e le territoriali di Confindustria, tra i servizi offerti agli associati c’è anche quello della piattaforma welfare. Negli ultimi mesi anche banche e assicurazioni hanno fiutato il business. Al fianco di Ubi Banca, prima a scendere in campo, ora sono arrivate anche Generali, Intesa Sanpaolo e Unicredit.

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Corriere della Sera, l’8 gennaio 2018

 

 

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