Welfare in azienda: quanto conta il Roi

da Feb 16, 2018Dicono di noi, Rassegna Stampa

Come funzionano gli indici per misurare il benessere in azienda e quanto vale avere un benchmark per orientare il piano aziendale.

di Nadia Anzani*

Quello vissuto dal welfare aziendale negli ultimi due anni è stato un vero e proprio boom. Ad alimentarne la crescita hanno contribuito due fattori: la fiscalità favorevole introdotta dalla legge di stabilità del 2016, confermata poi da quelle successive, e le ricadute positive sulla produttività, evidenziate anche da una ricerca di McKinsey, in base alla quale il welfare aziendale accorcia le assenze per maternità (-15%, ovvero 1,6 mesi, pari a un risparmio di 1.200 euro per dipendente); diminuisce i distacchi per assistenza anziani (pari a 1.350 euro l’anno) e aumenta la disponibilità a fermarsi in ufficio oltre l’orario di lavoro (+ 5%).

Il tutto porta a ricadute positive sull’engagement index di ogni singolo lavoratore, in salita del 30%. Numeri e percentuali che hanno avuto un effetto positivo sul management made in Italy, tanto che a oggi «circa il 50% delle imprese nazionali ha attivato almeno un servizio di welfare al suo interno», precisa Emanuele Massagli, presidente di Aiwa, l’Associazione italiana welfare aziendale.

Il Roi per ottimizzare gli investimenti

Beni e servizi messi a disposizione dei dipendenti per un controvalore di 21 miliardi di euro, come emerge dal primo Rapporto italiano sul Welfare aziendale, realizzato da Eudaimon, società di consulenza e servizi welfare per le imprese, in collaborazione con il Censis e presentato recentemente al mercato. Una cifra di primo piano, tanto che diversi accademici e imprese hanno iniziato a chiedersi se fosse possibile calcolare in modo​ oggettivo il ritorno degli investimenti fatti in welfare, con l’obiettivo di gestirlo meglio e puntare a una sua vera integrazione con il sistema pubblico. «Calcolare il Roi è infatti un esercizio importante perché invita le imprese a porre l’attenzione sull’efficacia del welfare offerto, non solo in tema di risparmio sui costi del lavoro, ma anche di impatto sui bisogni reali delle persone», spiega Francesca Rizziamministratore delegato di Jointly, società di servizi in ambito di welfare aziendale. «Non va dimenticato, infatti, che il welfare nasce proprio per rispondere ai bisogni che i lavoratori non riescono a risolvere autonomamente.  La riprova di questo, come dimostrano alcune ricerche svolte dalla nostra società, è che il valore dato dalle persone ai servizi erogati dall’azienda è tanto più alto quanto più sono in grado di risolvere difficoltà per loro insuperabili in natura. E si distanzia molto dal suo reale valore economico».
In Europa, dove gli impieghi per il benessere dei dipendenti esistono da tempo, calcoli sul Roi sono già stati fatti ed è emerso che il suo valore viaggia tra il 15 e il 25% dell’investimento iniziale fatto da una società in beni e servizi a favore dei dipendenti.

Anche in Italia, però, da qualche mese ci si sta muovendo su questo fronte. All’Università di Milano Bicocca, per esempio, in collaborazione con la società di consulenza aziendale indipendente Valore Welfare, è nato Wbr-Lab, il primo laboratorio di ricerca per la misurazione del welfare benefit return. «Il nostro obiettivo è mettere a punto con esperti del settore una metodologia di gestione applicabile a diverse tipologie di impresa indipendentemente dal settore in cui opera e dalle sue dimensioni, con l’obiettivo di migliorare la gestione del welfare aziendale», precisa Dario Cavenagodirettore responsabile del coordinamento scientifico di Wbr-Lab e docente di Economia aziendale nell’ateneo di Milano Bicocca. Per ora sono sette le aziende che hanno aderito a questo laboratorio: Axa Italia, Italtel, Bper Banca, Cirfood, Aeroporto di Bologna, Havas Media, Milano Serravalle-Milano Tangenziali spa. Ma se alcuni calcoli sono certi, come quelli sui risparmi che il welfare porta in termini di tassazione e di recupero di determinati costi, per altri sarà una sfida. «Con il welfare è possibile migliorare in efficienza, risparmiare su alcuni costi e ottenere miglioramenti nella filiera del valore, così posso dire che una percentuale di profitto è legata a esso», precisa Cavenago. «Più complesso, invece, è calcolare il valore degli effetti indotti, come il ritorno di reputazione che può aprire alle imprese nuovi mercati, oppure i risparmi in termini di efficienza e senso di appartenenza del personale all’azienda. In questi casi, però, il welfare funziona come incentivo e come tale è misurabile in termini di impatto».

Se l’offerta è personalizzata rende di più

Anche Eudaimon alla fine del 2016 ha sviluppato il suo Life@Work Index, uno strumento per analizzare il ritorno degli investimenti in benessere aziendale.  «Fino a ora abbiamo preso in esame 30 aziende e 25 mila lavoratori», interviene Alberto Perfumoamministratore delegato della società. «Di questo campione abbiamo testato sia il grado di soddisfazione dei lavoratori sia quello delle aziende. Mettendo insieme tutte le informazioni abbiamo poi rielaborato degli indici che ci danno il valore del welfare aziendale per le imprese, consentendo loro di fare benchmark ed eventualmente riorientare il piano per rispondere meglio alle esigenze dei loro lavoratori in termini di servizi». Il dato più interessante emerso dalle ricerche di Eudaimon  è che nelle organizzazioni dove si sfruttano tutte le potenzialità del welfare, ovvero sia quelle tangibili (risparmio di denaro, valore per la persona, migliore efficienza su alcune attività), sia quelle intangibili (lavoratori più soddisfatti e coinvolti, facilità di relazione con altri attori come i sindacati, enti pubblici presenti su territorio, «il risultato complessivo è sette volte più grande rispetto a quello che ottengono le imprese che si concentrano solo su risparmio economico e fiscale», racconta Perfumo.

Vietato sprecare risorse

Ciò significa che l’offerta di welfare sussidiario non deve essere standardizzata sui bisogni medi della popolazione aziendale, produttività e risultati economici. O peggio, come bene evidenzia Massagli, il welfare non deve diventare solo «una misura di efficientamento economico della gestione del personale, quindi uno strumento per risparmiare. La normativa sul tema unisce in modo evidente i risparmi economici alle finalità sociali dello strumento, ma se pesano troppo le tecniche legate al risparmio senza occuparsi dell’aspetto sociale questo alla lunga potrebbe determinare la fine del welfare». Al contrario enfatizzando l’aspetto sociale, mettendo i bisogni reali delle persone in primo piano e instaurando un dialogo aperto e di collaborazione tra azienda e territorio circostante nell’ottica di integrare nella maniera più efficace possibile gli interventi di welfare aziendale con i servizi di quello pubblico presenti sul territorio, si potrebbe invece lavorare a un suo consolidamento nel tempo.  «In questa direzione il calcolo del Roi è importante», afferma Rizzi.  «Inoltre permetterebbe alle aziende di razionalizzare gli investimenti e capire quali sono i beni e servizi erogati che hanno un ritorno più elevato, consentendo così di concentrarsi su quelli che hanno un impatto maggiore sul personale in termini di valore percepito», conclude Rizzi.

E i risultati migliorerebbero, come conferma anche la ricerca di McKinisey, in base alla quale un welfare personalizzato consente alle imprese di ottenere il massimo del valore rispetto allo sforzo sostenuto. In base ai calcoli fatti dalla società di consulenza internazionale, infatti, a fronte di un costo dipendente di 150 euro l’anno circa, un’azienda può ottenere un beneficio economico di 300 euro. Ma solo una parte di questo vantaggio è riferibile al risparmio di costi. Il resto corrisponde a un aumento della produttività legata al miglior benessere del dipendente.

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Changes.unipol.it, il 15 febbraio 2018

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